
Il cosiddetto “cronotopo”, la manifestazione a livello di comportamento dei ritmi circadiani che praticamente controlla le ore durante il giorno in cui siamo più attivi o in cui preferiamo dormire, può influenzare anche il rischio di depressione secondo uno studio apparso su JAMA Psychiatry.[1][2]
I ricercatori dell’Università del Colorado a Boulder, del Broad Institute del MIT e dell’Università di Harvard hanno eseguito uno studio su 840.000 soggetti, studio che sembra certificare che esiste un collegamento tra il ritmo del sonno e il rischio di depressione. Come spiega Celine Vetter, assistente professoressa di fisiologia integrativa a Boulder e una delle autrici senior dello studio, spiega che con questo studio lei il suo team hanno scoperto che svegliarsi anche un’ora prima la mattina può essere collegato ad un rischio più basso di incorrere in depressione.[1] Svegliarsi un’ora prima non vuol dire dormire un’ora in meno se si va letto un’ora prima la sera precedente.
Già in passato alcuni studi hanno mostrato che quelle persone che dormono più poco durante la notte e di più durante le ore di luce, i cosiddetti “nottambuli”, mostrano probabilità più alte di soffrire di depressione rispetto a quelle persone che invece sono più “mattiniere”. E ciò sembra essere indipendente dal numero di ore di sonno e dunque una cosa non collegata al riposo in sé. Diversi altri studi hanno dimostrato che i disturbi del sonno possono influire sull’umore.
Già nel 2018 la stessa Vetter aveva pubblicato uno studio, riguardante 32.000 infermieri, che suggeriva che le persone più mattiniere mostravano una probabilità del 27% più bassa di incorrere in depressione nel corso di quattro anni. Per avere un’idea più chiara, lei e l’autore principale dello studio, Iyas Daghlas, hanno acquisito i dati di un database biomedico molto più ampio che hanno poi potuto analizzare con il metodo della randomizzazione mendeliana per cercare collegamenti genetici.[1]
Un terzo dei soggetti si autentificava come mattiniero, il 9% come nottambulo mentre il resto dei soggetti si trovava nel mezzo. Il punto temporale medio del sonno, inteso come quell’orario che si trova giusto a metà tra l’ora in cui ci si corica e l’ora in cui ci si sveglia, per tutti i soggetti era alle 3 del mattino. I ricercatori trovavano una conferma che i soggetti con quelle varianti genetiche che li predispongono ad essere più mattinieri mostrano anche un minor rischio di depressione.[1]
I ricercatori scoprivano, nello specifico, che ogni punto medio del sonno identificabile in un’ora prima poteva essere collegato ad un rischio inferiore del 23% di disturbo depressivo maggiore.
In sostanza confrontando due persone una delle quali va letto all’una di notte e l’altra va letto a mezzanotte e che dormono per lo stesso numero di ore, la persona che va letto a mezzanotte riduce il rischio di depressione del 23% e una eventuale persona che va letto alle 23 lo riduce di circa il 40%.[1]
Forse c’entra il numero di ore in cui si è esposti alla luce durante il giorno, uno numero di ore che, evidentemente, nei mattinieri risulta più alto. Forse c’entra un determinato orologio biologico interno, il cosiddetto ritmo circadiano, che può evolversi in maniera diversa da persona a persona. Forse c’entra il fatto che le persone non mattiniere non si trovano a loro agio con una società che è stata progettata per le persone mattiniere, sostanzialmente per essere attiva durante le ore di luce piuttosto che durante le ore serali e notturne, come spiega Daghlas. Ancora non è chiaro il motivo di questo collegamento e altri studi clinici randomizzati dovrebbero essere effettuati per comprenderlo. Tuttavia questo studio mostra che esiste un chiaro collegamento tra l’orario del sonno (e non solo le ore di sonno) e il rischio di depressione.[1]
Note e approfondimenti
- Want to reduce your depression risk? Wake up an hour earlier | CU Boulder Today | University of Colorado Boulder (IA)
- Genetically Proxied Diurnal Preference, Sleep Timing, and Risk of Major Depressive Disorder | Depressive Disorders | JAMA Psychiatry | JAMA Network (IA) (DOI: 10.1001/jamapsychiatry.2021.0959)