Archiviazione di dati nel DNA: gli scienziati sembrano crederci sempre di più e l’approvazione di un nuovo finanziamento da 25 milioni di dollari negli Stati Uniti per un nuovo progetto lo conferma.
Il nuovo progetto nascerà nel contesto del programma MIST (Molecular Information Storage) ed è stato messo in piedi dalla Intelligence Advanced Research Projects Activity (IARPA). Il progetto dovrà favorire lo sviluppo di nuove tecniche di stoccaggio molecolare scalabile basate sul DNA.
Il progetto sarà guidato dal Georgia Tech Research Institute (GTRI) e prevede l’utilizzo del DNA per l’archiviazione dei dati digitali, una archiviazione che possa eventualmente scalare nel regime degli exabyte senza per questo rinunciare ai ridotti requisiti di ingombro fisico propri di questa tecnologia.
Attualmente la tecnologia per memorizzare dati nel DNA esiste già ma ci vogliono ulteriori progressi per rendere questa cosa pratica, anche ad un livello commerciale, nonché competitiva con altre tecniche di memorizzazione di dati, tra cui quelle del nastro magnetico e dei dischi ottici.
“L’obiettivo è ridurre in modo significativo le dimensioni, il peso e la potenza necessari per l’archiviazione dei dati di archiviazione”, specifica Alexa Harter, direttrice del laboratorio CIPHER (Cybersecurity, Information Protection and Hardware Evaluation Research). “Ciò che oggi richiederebbe acri in una data farm potrebbe essere conservato in un dispositivo delle dimensioni del piano di un tavolo. Vogliamo migliorare significativamente tutti i tipi di metriche per l’archiviazione dei dati a lungo termine”.
La tecnologia di archiviazione dati nel DNA prevede un tipo di memorizzatore così compatta che si potrebbe arrivare ad archiviare i dati un milione di dischi rigidi da un terabyte in un volume delle dimensioni di un cubetto di zucchero, come spiega Nicholas Guise, ricercatore del GTRI.
Inoltre i dati, differentemente dalla maggior parte delle altre tecnologie di digitalizzazione di memorizzazione di dati, una volta inseriti nel DNA possono essere conservati per centinaia di anni se non per migliaia di anni.
Si pensa, però, che questa tecnologia possa, almeno inizialmente, essere utilizzata solo per quei dati molto importanti che devono essere conservati in maniera indefinita ma a cui si accede raramente.
Questo perché, almeno per il momento, il tempo necessario per la lettura e la decodifica dei dati risulta ancora un po’ troppo lungo e dunque non adatto per tutti quei dati a cui si deve accedere spesso e rapidamente.