
Il livello di rischio e di delirio post-operatorio per gli anziani dipende anche dal luogo in cui il soggetto vive. Secondo un particolare studio apparso sul Journal of American Geriatrics Society, vivere in un quartiere considerabile come “svantaggiato” rende il rischio di soffrire di delirio dopo un’operazione chirurgica più alto di circa due volte rispetto agli omologhi che vivono invece in quartieri più “benestanti” o comunque meno svantaggiati.
Lo studio tratta del cosiddetto delirium, una sindrome clinica che vede un declino cognitivo che si presenta tramite sintomi come disorientamento, disattenzione, letargia o agitazione nonché disturbi della percezione. Si tratta di una condizione di può portare ad un profondo stress psicologico non solo per i pazienti ma anche per le loro famiglie oltre ad un declino funzionale.
I ricercatori hanno analizzato uno studio di coorte osservazionale contenente i dati di 560 pazienti con un’età superiore ai settant’anni che erano stati sottoposti a operazioni chirurgiche (non di tipo cardiaco) tra il 2010 e il 2013 nei pressi di 2 centri medici di Boston. I ricercatori hanno preso in considerazione anche i luoghi di residenza dei partecipanti, in particolare caratteristiche come lo stato socioeconomico della zona. Lo hanno fatto grazie ad un apposito sistema denominato Area Deprivation Index (ADI).
I ricercatori si accorgevano che caratteristiche dei quartieri di residenza come la povertà, il livello di istruzione, il livello di occupazione e l’ambiente fisico nonché la mancanza di infrastrutture e la densità di popolazione potevano contribuire all’aumento di rischio dello sviluppo del delirio a seguito di intervento chirurgico.
Le caratteristiche del quartiere di residenza emergevano come il prenditore più forte di incidenza del delirio, più forte anche del livello di reddito e di quello di istruzione dei soggetti stessi.
“La nostra speranza è che costruendo la consapevolezza delle barriere alle cure presenti nei quartieri svantaggiati, i team clinici adatteranno il supporto e le raccomandazioni di trattamento sulla base delle risorse disponibili all’interno della comunità del paziente”, spiega Sharon K. Inouye, autrice senior dello studio.