Uno studio condotto da ricercatori della Duke University chiarisce alcuni aspetti riguardo alla questione relativa al maggior accumulo di grasso negli esseri umani rispetto alle altre specie di primati.
In effetti, per certi versi, si tratta di un mistero: perché gli esseri umani sono così soggetti all’obesità rispetto a tante altre specie di scimmie e in generale di primati con cui condividono il 99% della DNA?
Basti pensare che la maggior parte degli altri primati ha meno del 9% di grasso corporeo mentre per gli esseri umani un livello di grasso compreso tra il 14 e il 31% può essere ritenuto sano e normale.
Non si tratta solo di stili di alimentazione e di diete, deve esserci qualcosa di genetico alla base.
Ed infatti i ricercatori hanno scoperto che la maggiore attitudine al grasso degli umani è collegata ad un cambiamento molecolare nelle modalità con le quali il DNA è impacchettato all’interno delle cellule di grasso, cambiamento che sarebbe avvenuto in un qualche punto della nostra evoluzione passata.
Questo cambiamento ha ridotto le capacità del nostro corpo di trasformare il grasso bianco, denominato il grasso “cattivo” , in grasso bruno, a sua volta soprannominato il grasso “buono”.
Nello studio, pubblicato su Genome Biology and Evolution, si descrivono i risultati raggiunti da Devi Swain-Lenz e Greg Wray, due biologi della Duke nel corso degli esperimenti su campioni di grasso prelevati da umani, scimpanzé e macachi Rhesus.
Analizzando il genoma dei campioni, hanno identificato un frammento di DNA ricorrente che è alla base della conversione di grasso da un tipo di cellula all’altro.
Questo frammento risulterebbe ancora del tutto operativo nelle scimmie mentre negli esseri umani sarebbe rimasto “nascosto” facendoci perdere la capacità di massimizzare il processo che vede deviare le cellule adipose verso il grasso “buono”.
“Siamo bloccati lungo il percorso del grasso bianco”, riferisce Swain-Lenz.
La ricerca potrebbe rivelarsi utile per comprendere le possibilità di attivazione o disattivazione di qualche gene per riattivare il processo e quindi contrastare l’obesità, ma gli stessi ricercatori riferiscono che a livello di ricerca ci si trova ancora molto lontani da un obiettivo del genere: “Non penso che sia così semplice come spingere un interruttore: se lo fosse, lo avremmo capito molto tempo fa”, riferisce Swain-Lenz.