
Un passo avanti importante verso la creazione di una Internet quantistica: è così che viene definita, in un comunicato emesso dall’Università Griffith, la scoperta effettuata da un team di ricercatori provenienti da varie università in relazione all’utilizzo del teletrasporto quantistico nell’ambito della comunicazione.[1]
Nelle comunicazioni odierne, qualsiasi sia il metodo utilizzato, esiste un problema: la perdita dei dati trasmessi. E ciò vale anche per le comunicazioni sui canali quantistici. Il nuovo studio è il primo che dimostra che è possibile ridurre gli errori, che poi portano alle perdite dei dati, migliorando le prestazioni di un canale con l’utilizzo del teletrasporto quantistico.
Come spiega Sergei Slussarenko, ricercatore dell’Università Griffith, uno degli autori dello studio, il nuovo metodo produce un segnale migliore. I ricercatori hanno infatti eseguito un esperimento tramite il quale hanno potuto correggere gli effetti della perdita di un fotone.
I ricercatori hanno utilizzato un protocollo puramente quantistico denominato teletrasporto dello stato quantistico per trasportare le informazioni evitando le perdite sul canale.
Come spiega Slussarenko anche se la crittografia quantistica è già usata sulla breve distanza, qualora la si voglia implementare in una rete quantistica di tipo globale, la perdita dei fotoni sulla lunga distanza comincia a diventare un problema.
Il nuovo relay quantistico sviluppato dal team, come spiega lo scienziato, potrebbe essere un componente chiave di una futura rete di comunicazione sulla lunga distanza. “Il teorema di non clonazione proibisce di fare copie di dati quantistici sconosciuti, quindi se un fotone che trasporta informazioni viene perso, le informazioni che trasportava spariscono per sempre”, spiega il ricercatore.
Quindi la perdita di informazioni deve essere ridotta al minimo se si vuole arrivare ad una vera Internet quantistica. Ed è quello che hanno ottenuto nell’esperimento i ricercatori attraverso un canale di comunicazione quantistica funzionante sulla lunga distanza. Lo studio è stato pubblicato su Nature Communications.[2]