
Un interessante articolo dell’astrofisico Ray Norris apparso su theconversation.com (vedi il link in fondo) ci mostra, anche con un grafico (di cui sopra), l’enorme avanzamento in termini di quantità di dati raccolti da parte dei radiotelescopi di tutto il mondo.
L’avanzamento è così rapido (è di tipo esponenziale) che in pratica i radioastronomi del futuro non saranno più impegnati a coadiuvare o anche solo a puntare i radiotelescopi ma passeranno tutto il tempo a scandagliare le enormi masse di dati (mai come in questo caso è azzeccata la definizione di “big data”) raccolte dai radiotelescopi e prelevate da varie zone dell’universo osservabile.
Se oggi gli astronomi hanno mmaggiori probabilità nel fare importanti scoperte scandagliando, tramite apposite query, i database on-line delle varie banche dati dei vari telescopi, spaziali e non, e radiotelescopi (si parla di petabyte e petabyte di dati), poter sfruttare appieno queste risorse risulterà comunque una sfida non da poco, tanto che si parla già di intelligenza artificiale coadiuvata da lunghe fasi di machine learning per tentare di approcciare ad un’analisi più concreta.
Si pensi che un solo progetto in corso (l’Australia’s Evolutionary Map of the Universe, EMU), che si serve dei radiotelescopi del progetto CSIRO, aumenterà in un sol colpo il numero di fonti radio di circa 70 milioni, rispetto alle 2,5 milioni di fonti radio scoperte dai radiotelescopi di tutto il mondo finora. E si parla di un solo progetto.
Le scoperte che potrebbero venire fuori da utilizzo proficuo dei big data provenienti dalla futura radioastronomia potrebbero dunque essere sensazionali.