Essere in uno stato di sovrappeso oppure essere obesi può ridurre, in maniera anche significativa, il flusso di sangue del cervello secondo lo studio condotto da ricercatori dell’Irish Longitudinal Study on Aging (TILDA) del Trinity College di Dublino.[1] Lo studio è stato pubblicato sulla rivista > Neurobiology of Aging .[2]
Secondo i ricercatori, questo studio mostra che esiste un collegamento tra l’obesità e un flusso sanguigno cerebrale ridotto ma dimostra anche che eseguendo un regolare esercizio fisico è possibile proteggersi da queste conseguenze. Si tratta di conseguenze che possono portare anche ad una “ipoperfusione cerebrale”, una condizione che innesca un meccanismo che può favorire la demenza e la malattia di Alzheimer.[1]
I ricercatori hanno esaminato l’indice di massa corporea, il rapporto vita-fianchi e la circonferenza della vita nonché il livello di attività fisica e il flusso sanguigno cerebrale (quest’ultimo misurato tramite tecniche di MRI all’avanguardia) di alcuni soggetti adulti con età superiore a 50 anni.
Scoprivano che un aumento dell’indice di massa corporea, del rapporto vita-fianchi o del girovita poteva essere collegato ad un afflusso minore di sangue al cervello.
Scoprivano inoltre che un aumento del girovita di più di un centimetro poteva essere collegato ad una riduzione del flusso sanguigno cerebrale comparabile a quella che si ha con un anno in più di età. Infine scoprivano che livelli più alti di attività fisica potevano modificare questi collegamenti. Nello specifico i ricercatori raccomandano almeno 1,5 oppure 2 ore di attività fisica durante il giorno, anche attività che richiedono sforzi moderati come il camminare velocemente oppure l’andare in bicicletta.
“Molti esperti hanno dimostrato che l’obesità e l’invecchiamento hanno effetti molto simili sulla biologia dell’invecchiamento; le malattie associate all’obesità sono simili a quelle dell’invecchiamento e malattie legate all’età – malattie cardiache, diabete, ipertensione, insufficienza renale, artrite, suscettibilità alle infezioni – incluso COVID-19”, spiega Rose Anne Kenny, una ricercatrice del TILDA nonché una delle autrici dello studio.[1]