
Le paludi potrebbero salvare il mondo: è questa la conclusione a cui si arriva in un articolo pubblicato sull’Horizon Magazine secondo il quale le torbiere, paludi con una grossa abbondanza di acqua in movimento lento e a temperatura bassa, possono rappresentare un deposito “eccellente “per l’anidride carbonica.
L’anidride carbonica è uno dei gas serra più potenti e più in grado di modificare il clima terrestre ed è importante “sequestrarla” o immagazzinarla per far sì che non venga dispersa nell’ambiente. Numerosi sono i metodi che gli scienziati stanno ideando per ottenere questo obiettivo ma sempre più spesso si fa ricorso alla stessa natura che ha già dimostrato di poter eseguire questo compito forse in maniera ancora più efficiente di qualsiasi metodo sviluppato in laboratorio.
Tra le tante tipologie di ambienti naturali che possono “sequestrare” l’anidride carbonica ci sono anche le paludi: le torbiere, fatte perlopiù di materiale vegetale morto marcescente, possono far sì che l’anidride carbonica si depositi sotto questo strato.
Il materiale vegetale viene di solito scomposto dagli enzimi che sono presenti a loro volta nei microrganismi. Nelle torbiere esistono però anche altri composti denominati fenoli che fermano il funzionamento di alcuni di questi insiemi e portano ad un “fallimento spettacolare della decomposizione”, come spiega Chris Freeman, biogeochimico della Bangor University, Regno Unito, che sta studiando proprio le paludi e le loro capacità di immagazzinare l’anidride carbonica.
Si tratta di un equilibrio per certi versi un po’ precario: basterebbe che uno solo diquesti enzimi, denominato fenolossidasi, entri in azione perché il processo di decomposizione riprenda e le torbiere inizino a rilasciare il loro carbonio nell’ambiente. Si tratta, come definito nel comunicato stampa, di un “fermo delicato che trattiene la porta del disastro climatico”.
Ora gli scienziati temono che proprio questo possa accadere con il riscaldamento globale e con la siccità sempre più pressante e proprio per questo lo stesso Freeman, insieme alla ricercatrice Juanita Mora-Gomez, ora presso l’Istituto di scienze della terra di Orléans, hanno iniziato un nuovo progetto denominato microPEAT per studiare con molto più dettaglio le torbiere del Galles, dell’Artico e della Colombia.
Hanno prelevato dei campioni da queste paludi e li hanno portati in laboratorio per sottoporre a pressanti condizioni di siccità e per capire gli effetti risultanti.
In effetti con i campioni del Galles e dell’Artico accadeva ciò che era temuto: con la siccità i microbi nella torba cambiavano il proprio metabolismo e iniziavano ad emettere il carbonio. Tuttavia con i campioni della Colombia, lo stesso stato di siccità andava invece a sopprimere ulteriormente gli enzimi fenolossidasi.
I ricercatori vogliono comprendere il perché di questa differenziazione ma già credono che esistano alcuni particolari punti nelle torbiere che possono essere più resistenti ai cambiamenti climatici rispetto ad altri.
Rispondere a questi interrogativi potrebbe rivelarsi molto importante per prevenire il rilascio di carbonio nell’ambiente e quindi la stessa accelerazione del riscaldamento globale. Si tratta di una “possibilità molto importante”, come spiega lo stesso Freeman, una sorta di “piano B per il pianeta”.
Approfondimenti
- Why bogs may be key to fighting climate change | Horizon: the EU Research & Innovation magazine | European Commission (IA)
- Microbial communities of Temperate, Artic and Tropical peatlands and their role in the response of carbon storage function to global change | MicroPEAT Project | H2020 | CORDIS | European Commission (IA)