Scienziati maschi presentano propri studi con linguaggio più positivo rispetto alle femmine

Un interessante studio condotto da un team internazionale di ricercatori e pubblicato poi su BMJ mostra che ci sono delle differenze riguardo al linguaggio utilizzato per presentare i propri studi da parte degli scienziati maschi e di quelli femmine.
Alterare in maniera positiva il linguaggio, ad esempio nell’abstract dello studio, può infatti guidare il livello di attenzione degli altri scienziati nel proprio campo e ciò a sua volta può aumentare le citazioni, cosa che naturalmente contribuisce al progresso della carriera.

Il team di ricercatori ha analizzato le descrizioni che gli stessi scienziati fanno dei propri studi per quanto riguarda il campo della ricerca biomedica. Hanno in particolare analizzato più di 6 milioni di pubblicazioni cliniche o riguardanti le scienze della vita regolarmente sottoposti a revisione paritaria.
Hanno scoperto che gli autori di sesso maschile mostravano il 21% in più di probabilità di usare un linguaggio che inquadrava positivamente lo studio nell’abstract e nei titoli rispetto agli autori di sesso femminile.

Gli scienziati maschi, per esempio, sembrano utilizzare maggiormente parole come “eccellente”, “unico” o “nuovo” e questa tecnica comunicativa sembra funzionare in quanto gli articoli dei ricercatori maschi hanno fino al 13% in più dicitazioni rispetto agli articoli delle ricercatrici.
Ciò porta ad una forma di sottorappresentazione delle donne nel campo della medicina e delle scienze della vita. Secondo il comunicato stampa che presenta lo studio, il minor numero di citazioni può essere collegato anche al fatto che le scienziate tendono a guadagnare di meno e a ricevere meno borse di ricerca.

“I fattori che sono alla base delle disparità di genere nel mondo accademico sono numerosi e complessi, ma è importante essere consapevoli del fatto che anche il linguaggio può svolgere un ruolo, sia come fattore di disuguaglianza che come sintomo delle differenze di genere nella socializzazione”, afferma Anupam Jena, autore senior dello studio nonché professore associato presso la Harvard Medical School.

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