
Un team di ricercatori ha scoperto che trapiantando il liquido cerebrospinale dai topi giovani ai topi vecchi si può migliorare la conduttività dei neuroni in questi ultimi, cosa che apporta conseguenze positive sul processo di creazione e di richiamo dei ricordi. Lo studio è stato pubblicato su Nature.[1]
Il liquido cerebrospinale
Secondo Maria Lehtinen, una neurobiologa del Boston Children’s Hospital, si tratta di una scoperta eccitante anche per quanto riguarda le applicazioni terapeutiche.
Il liquido cerebrospinale ha un ruolo nel cervello simile a quello che ha il plasma nel sistema nervoso centrale. È fatto da una “zuppa” di ioni e di sostanze nutritive essenziali per lo sviluppo del cervello.
Con l’invecchiamento, e ciò riguarda un po’ tutti i mammiferi, il liquido cerebrospinale tende a perdere questo effetto positivo e ciò può influenzare la capacità della memoria.
L’esperimento con i topi
I ricercatori hanno prima somministrato ad un gruppo di topi di 20 mesi di età tre scosse elettriche con lampi di luce e suoni in modo che il loro cervello creasse l’associazione tra le luci e suoni e la scossa. Hanno poi infuso in parte di questi topi del liquido cerebrospinale prelevato da topi di 10 settimane di età.
Dopo tre settimane i topi venivano sottoposti alle stesse luci e agli stessi suoli ma senza la scossa elettrica. Ciò ricreava la paura nel cervello dei topi anche se la scossa non avveniva.[1]
Risultati
In quei topi che avevano ricevuto il liquido cerebrospinale prelevato dai topi giovani il ricordo dello shock avveniva più spesso: i topi tendevano “congelarsi” per la paura nel 40% delle volte. Tuttavia nel gruppo dei topi in cui non era stato somministrato il liquido cerebrospinale giovane ciò avveniva solo nel 18% dei casi.
Si tratta di risultati che suggeriscono che il liquido cerebrospinale prelevato da membri giovani può aiutare i soggetti più vecchi per quanto riguarda le capacità cerebrali collegate all’invecchiamento.
“L’implicazione più ampia è che il cervello è ancora malleabile e ci sono modi per migliorarne la funzione”, spiega Tony Wyss-Coray, un neuroscienziata dell’Università di Stanford e uno degli autori dello studio secondo il quale “non tutto è perduto”.[1]