
La scoperta dell’importante ruolo che svolge un lipide presente nelle membrane delle cellule nel contesto della “morte cellulare” è stata effettuata da un team internazionale di ricercatori guidato da uno scienziato dell’Università di Innsbruck. I risultati infondono speranze in relazione alla possibile “manipolazione” di questo importante fenomeno per contrastare le malattie.
La morte cellulare è importante per l’organismo, come spiega un nuovo comunicato dell’Università di Innsbruck, per ripristinare le funzionalità delle varie tipologie di cellule. Un esempio di morte cellulare risiede nell’autofagia: una cellula può “digerirsi” in maniera parziale e ciò le fa guadagnare un quantitativo di energia che poi può usare per la riparazione. Se il tentativo di riparazione fallisce, la cellula muore e questo permette di combattere diverse malattie.[1]
Scoperta di un particolare lipide presente nelle membrane
Le cellule sono però presenti alcune sostanze che bloccano queste importanti reazioni e, alla fine, inibiscono la stessa morte cellulare. Un nuovo studio presentato su Nature Communications[2] descrive la scoperta di un particolare lipide presente nelle membrane cellulari, denominato PI (18:1/18:1), che sembra avere un ruolo molto importante in questi processi. Secondo il comunicato dell’università austriaca, questa scoperta potrebbe portare ad “interessanti possibilità mediche”.[1]
Potrebbe essere somministrato o inibito
L’enzima PI(18:1/18:1) è un lipide di membrana fatto quasi interamente da un acido grasso prodotto da un altro enzima denominato SCD1. I ricercatori sono riusciti a riprodurre in laboratorio l’effetto di inibizione della risposta allo stress da parte dell’enzima SCD1 al lipide di membrana PI(18:1/18:1). Questo significa che questo lipide potrebbe essere somministrato in maniera specifica oppure se ne potrebbe inibire la formazione. Ciò permetterebbe, almeno a livello teorico, di combattere più efficiente le malattie senza interrompere la funzione dell’enzima SCD1 collegato. Prima di arrivare a questo punto, però, devono essere effettuate più analisi e soprattutto devono essere comprese meglio le funzionalità di questo enzima.[1]
Chiaro connessione che apre nuovi approcci terapeutici
“Quello che è particolarmente interessante è che i processi associati allo stress, come il processo di invecchiamento, la resistenza alla chemioterapia o lo sviluppo di tumori, influenzano tutti la quantità di PI(18:1/18:1) nei tessuti colpiti. C’è un chiaro connessione che apre nuovi approcci terapeutici”, spiega Andreas Koeberle, ricercatore all’Università di Innsbruck che ha guidato il team di ricerca internazionale.[1]