
Tramite le analisi dei resti di una mandibola eccezionalmente ben conservata, un gruppo di scienziati dell’Università Statale della Pennsylvania, coadiuvato da colleghi dell’Università di Antananarivo in Madagascar , ha scoperto che apparteneva ad una delle più grandi specie di lemuri giganti estinti endemici dell’isola di Madagascar. Detto “lemure koala” e denominato Megaladapis edwardsi, questo animale è vissuto nell’isola africana tra 500 e 2000 anni fa. I ricercatori hanno altresì trovato nuove informazioni che permetteranno un migliore inserimento di questa specie nell’albero genealogico dei primati.
Madagascar è un’isola eccezionale per quanto riguarda i lemuri dato che, in quest’isola, vivono più di 100 specie, come spiega George Perry , un professore di antropologia della Penn State ed uno degli autori dello studio. I ricercatori hanno scoperto già 17 specie di lemuri che sono oggi estinte e quasi tutte queste estinzioni sono avvenute più o meno recentemente. E quasi tutti questi lemuri ci si sono estinti erano di grandi dimensioni, sicuramente più grandi dei lemuri che ci sono attualmente sull’isola.
Lo studio, pubblicato su Proceedings of the National Academy of Sciences, si basa sostanzialmente sull’analisi dei resti di una mandibola conservata nella collezione del Laboratorio di Primatologia e Paleontologia dell’Università di Antananarivo , originariamente scoperta a Beloha Anavoha , una località che si trova nell’area meridionale del Madagascar.
Tramite la radiazione al carbonio-14, i ricercatori hanno prima scoperto che si trattava dei resti di una mandibola di Megaladapis edwardsi e poi che si trattava di un esemplare vissuto 1475 anni fa.
I ricercatori hanno anche sequenziato il DNA dell’esemplare scoprendo che è strettamente correlato all’ Eulemur rufifrons, detto anche lemure dalla fronte rossa, una specie attualmente ancora vivente.
E, sempre a livello genetico, i ricercatori hanno trovato delle somiglianze tra il M. edwardsi e la scimmie colobine dal naso camuso dorato nonché con i cavalli. Queste somiglianze, come spiega Stephanie Marciniak , posto dottorato in antropologia della Penn State ed altra autrice dello studio, risiedono soprattutto in alcuni geni che codificano alcuni prodotti proteici i quali sono alla base della biodegradazione delle tossine vegetali, tra cui l’ idrolasi (un enzima che abbatte i composti secondari delle piante) e dell’assorbimento dei nutrienti nonché della degradazione chimica nell’intestino. Si tratta di prove del fatto che il M. edwardsi era una specie folivora (erbivoro che si nutre soprattutto di foglie).