
Sarebbero molti i giovani che vivono con una sindrome da stanchezza cronica che non è diagnosticata secondo un nuovo studio apparso sulla rivista Child & Youth Care Forum. I ricercatori dell’Università De Paul e dell’Ann & Robert H. Lurie Children’s Hospital di Chicago si riferiscono alla cosiddetta sindrome da fatica cronica, più specificatamente conosciuta come encefalomielite mialgica (Encephalomyelitis/Chronic Fatigue Syndrome, ME/CFS), una sindrome caratterizzata da un affaticamento a lungo termine che naturalmente preclude o rende difficoltose molte delle attività quotidiane.
Il ricercatore nonché professore di psicologia Leonard A. Jason ha utilizzato i dati relativi a più di 10.000 bambini e adolescenti provenienti dall’area di Chicago seguiti per sette anni.
I ricercatori scoprivano che solo a meno del 5% di tutti i giovani presenti nello studio che risultavano positivi alla condizione di ME/CFS era stata diagnosticata la condizione.
Tra i bambini con la più alta possibilità di vivere con questa condizione non diagnosticata c’erano quelli afroamericani e Latini.
I ricercatori hanno inoltre effettuato interviste telefoniche e altre analisi a più di 10.000 giovani con un’età compresa tra i 5 e i 17 anni scoprendo che dei 42 giovani con diagnosi di ME/CFS scoperti tra loro solo al 4% (due di loro) era stata diagnosticata questa malattia.
Il problema sta anche nel fatto che, come spiega lo stesso Jason, molti medici e professionisti non sono stati preparati o comunque non sono in grado di affrontare una condizione del genere e in generale anche il sistema sanitario americano non ha mai fatto un buon lavoro in tal senso. Ancora oggi, per esempio, ci sono delle incomprensioni, tra gli stessi operatori sanitari, riguardo al riconoscimento di questa condizione le cui cause vengono troppo spesso attribuite a semplice fatica fisica o a svogliatezza.
Secondo il ricercatore Ben Z. Katz, specialista in malattie infettive pediatriche, questi risultati ottenuti con i più giovani potrebbero essere traslati anche per i più grandi e ciò mostra che c’è sicuramente bisogno di modalità migliori per identificare questa condizione nelle persone e per sviluppare terapie o interventi efficaci.