Una nuovissima tecnologia, definita anche come “fingerprinting del cervello”, può essere utilizzata per risolvere i crimini, soprattutto quelli legati al terrorismo, ma secondo molte frange di scienziati e ricercatori risulta ancora non affidabile.
Il fingerprinting del cervello rileva quelle che possono essere considerate le “impronte digitali” del cervello. In sostanza si cerca di risolvere il crimine arrivando a conoscere determinate informazioni attraverso una sorta di lettura del pensiero.
Utilizzando la tecnica della elettroencefalografia è possibile leggere in un certo modo l’attività del cervello allo scopo di identificare, tra l’altro, un fenomeno conosciuto come risposta P300 detto anche “potenziale evento-correlato”. Si tratta di un picco alto nell’attività elettrica del cervello che si verifica in tempi brevissimi (di solito entro 1/3 di secondo) e che può essere considerato come una risposta incontrollabile ma misurabile agli stimoli familiari.
Probabilmente fare un esempio risulterà più utile: immaginate che sia stato utilizzato un coltello per commettere un crimine, ad esempio un omicidio. Gli inquirenti mostrano un’immagine del coltello al sospettato ma questo nega. Se nel momento della domanda il sospettato viene collegato ad un elettroencefalografo che registra una risposta P300 può essere accusato di aver mentito. Se non si avverte invece alcuna risposta di tipo P300, allora l’accusato è innocente.
Si tratta di una sorta di macchina della verità ma più precisa.
Secondo Paul Mcgorrery, in un interessante articolo su The Conversation (vedi il link più sotto), si tratta di una tecnica per nulla precisa e che soprattutto può violare la maggior parte delle leggi sulla privacy oggi esistenti. In effetti, un macchinario che riesce a leggere nei pensieri più intimi della gente potrebbe essere non ben visto dai fautori della privacy e dei diritti umani.