
Sono rimasti molto sorpresi gli scienziati divarie università americane ed europee quando hanno scoperto fossili di vegetali congelati e conservati sotto più di un chilometro di ghiaccio nella calotta della Groenlandia. La cosa è preoccupante perché conferma che la stessa calotta glaciale groenlandese si è sciolta, e dunque può farlo anche nel futuro più o meno prossimo, nel corso dei periodi più caldi della storia della terra.
Qualcosa che preoccupa in un periodo come questo, caratterizzato da un forte cambiamento climatico in termini di riscaldamento globale.
Il un nuovo studio, condotto da Andrew Christ, ricercatore dell’Università del Vermont, conferma che la Groenlandia, inoltre, è più sensibile a questi stessi cambiamenti climatici rispetto a quanto creduto o calcolato in precedenza.
La scoperta dei fossili vegetali sotto questa enorme coltre di ghiaccio è avvenuta quando i ricercatori hanno analizzato una carota di ghiaccio prelevata ad un chilometro di profondità nei ghiacci della Groenlandia nordoccidentale nel 1966 dagli scienziati dell’esercito americano. Questo campione è rimasto poi congelato per decenni negli “archivi” americani fino a quando è stato riscoperto nel 2017 e rianalizzato.
I ricercatori, dopo aver analizzato al microscopio il campione, hanno scoperto, oltre a sabbia e roccia, anche chiari fossili di ramoscelli e di foglie, cosa che mostra, senza dubbio, che questa enorme coltre di ghiaccio in un lontano passato della Terra, un passato più caldo, non esisteva e c’era invece della vegetazione, probabilmente una foresta boreale secondo i ricercatori.
Secondo gli stessi scienziati, nel corso degli ultimi milioni di anni c’è stata una fase calda durante la quale tutta la Groenlandia deve essere stata praticamente libera dai ghiacci. Qualora il ghiaccio della Groenlandia si sciogliesse del tutto, ipotesi dunque da non prendere più sottogamba, praticamente ogni città costiera della Terra sarebbe a rischio a causa dell’innalzamento del livello del mare.
E non è “un problema da venti generazioni”, come spiega Paul Bierman, uno geoscienziato dell’Università del Vermont che ha partecipato agli studi. Si tratta, infatti, di un problema molto urgente, che si farà sentire già tra i prossimi cinquant’anni.