Virus dell’epatite D, scoperto processo chiave nel ciclo di replicazione

La replicazione del virus dell'epatite D (rosso) induce l'autofagia (verde) nella cellula ospite (credito: Institut National de la Recherche Scientifique, INRS)

È definito come un processo chiave nel ciclo di replicazione del virus dell’epatite D (VHD) quello scoperto dal team di ricerca di Patrick Labonté, professore all’INRS. Si tratta di una notizia importante perché l’epatite D colpisce ancora diverse milioni di persone in tutto il mondo (da 15 a 20 milioni secondo le stime) e al contempo risulta non ancora contrastata al meglio.

Il perché è presto detto: il virus che la provoca può essere considerato speciale in quanto infetta solo le persone che hanno già il virus dell’epatite B (HBV). Si tratta di una combinazione di infezioni che naturalmente causa un danno maggiore al fegato e in generale all’organismo.
Il virus VHD, infatti, necessita del virus HBV per sopravvivere nell’organismo umano e per diffondersi come un parassita.

Attualmente si tenta di debellare il virus dell’epatite D prendendo di mira un enzima che controlla l’epatite B. Tuttavia, come spiega nel comunicato stampa lo stesso Labonté, si tratta di un procedimento non sempre efficace in quanto nella maggior parte dei casi virus VHD riesce a sopravvivere e continua a far danni.

Nel nuovo studio, pubblicato sul Journal of Virology, il team di Labonté mostra che il virus VHD, per crescere, utilizza la stessa proteina cellulare del virus HBV. Questa proteina, denominata ATG5, consente al virus la sua replicazione nel nucleo delle cellule che cerca di parassitare. Quello che questa proteina fa di preciso è ripulire i rifiuti cellulari mettendo in atto un processo denominato “autofagia”. Si tratta di un processo che teoricamente dovrebbe distruggere i virus invasori ma la maggior parte dei virus ha imparato ad utilizzarlo a proprio vantaggio.

ATG5 se rivela dunque una proteina essenziale per lo sviluppo e la diffusione anche dell’epatite D e i ricercatori in questo studio sono stati i primi a determinare l’effetto di questa stessa proteina sul virus dell’epatite D.

Ora che si conosce più approfonditamente il processo, si potrebbe agire sull’autofagia per interrompere il ciclo di vita del virus dell’epatite D tuttavia la situazione non è poi così semplice come spiega lo stesso Labonté: “Se blocciamo l’autofagia, preveniamo un fenomeno importante per tutte le cellule del corpo. Non sappiamo cosa potrebbe fare a lungo termine. Dovrebbe quindi essere inibito in modo specifico, temporaneo e localizzato”.

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