
Diversi studi sono stati fatti negli ultimi mesi per quanto riguarda gli eventuali collegamenti tra livelli più alti di vitamina D e i livelli di rischio per quanto riguarda la contrazione del virus della COVID-19. Secondo un nuovo comunicato emesso sul sito di PLOS,[1] gli studi che hanno trovato un collegamento tra l’aumento dei livelli di vitamina D nel corpo e un rischio minore di contrarre la COVID-19 sono stati “inconcludenti e forse soggetti a confusione”.[1]
Il comunicato è relativo ad un nuovo studio pubblicato su PLOS Medicine[2] e realizzato dai ricercatori Guillaume Butler-Laporte e Tomoko Nakanishi della McGill University, Canada. Questo nuovo studio, che si è basato su analisi genetiche, suggerisce che non esistono collegamenti tra i livelli di vitamina D ed un eventuale livello protettivo contro la COVID-19.[1]
I ricercatori hanno realizzato uno studio di randomizzazione mendeliana analizzando in particolare quelle varianti genetiche già conosciute per essere collegati a livelli più alti di vitamina D. Le hanno analizzate usando i dati di 4134 persone con COVID-19 e di 1.284.876 senza COVID-19. I soggetti provenivano da 11 paesi.[1]
I risultati conseguiti dai ricercatori suggerivano che non esiste un collegamento tra livelli di vitamina D ed una maggiore o minore suscettibilità la COVID-19, compresi gli eventuali livelli di gravità di questa malattia.[1]
Si tratta, come ammette lo stesso comunicato, di uno studio che ha comunque delle limitazioni e la principale sta nel fatto che tra i soggetti presi in esame non era stato possibile analizzare anche individui con carenza di vitamina D. Questo significa che i pazienti carenti di vitamina D potrebbero in effetti avere qualche vantaggio da una integrazione di questa vitamina per quanto riguarda gli esiti della COVID-19, cosa che questo studio non ha potuto dimostrare né ha potuto negare.
Per quanto riguarda i soggetti senza carenza di vitamina D, ossia la popolazione generale, invece, i risultati suggeriscono che un aumento di questa vitamina, ad esempio tramite gli integratori, potrebbe in effetti non migliorare gli esiti della COVID-19.[1]
Altra limitazione dello studio sta nel fatto che le varianti genetiche sono state prelevate da dati relativi solo a soggetti di origine europea. Questo significa che saranno necessari ulteriori studi che prendano in esame soggetti provenienti da varie altre aree del mondo o di altre etnie tipicamente non europee.[1]
I ricercatori affermano comunque chiaramente che “l’integrazione di vitamina D come misura di salute pubblica per migliorare i risultati non è supportata da questo studio. Ancora più importante, i nostri risultati suggeriscono che gli investimenti in altre vie terapeutiche o preventive dovrebbero essere prioritarie per gli studi clinici randomizzati COVID-19”.[1]
Secondo Butler-Laporte, il modo migliore per diramare la questione sarebbe realizzare uno studio completo basato sulla randomizzazione mendeliana, uno studio che richiederebbe, oltre che molte risorse, anche molto tempo: “La randomizzazione mendeliana può fornire informazioni più chiare sul ruolo della fattori di rischio come la vitamina D perché possono ridurre potenziali distorsioni da fattori di rischio associati come l’istituzionalizzazione e le malattie croniche”, riferisce il ricercatore. Per il momento, secondo lo scienziato, non esistono prove evidenti che più vitamina D possa avere effetti positivi sulla COVID-19.